A che titolo si può parlare della storia altrui? Che diritto abbiamo, noi “non cinesi”, di studiare, ricostruire e narrare complesse vicende biografiche che coinvolgono più generazioni di persone che, in Italia, costituiscono una minoranza ancora in larga parte impossibilitata a fare lo stesso?
Andando a rileggere le diverse declinazioni dell’identità sopra descritta (“Tu non sei cinesi, a che titolo parli di me?”/1) - sociale, etnica, di genere, di età, di classe, di formazione, di status professionale ecc. – è facile rendersi conto che in questo momento storico e in questo paese esse garantiscono una posizione privilegiata non soltanto in termini di “accesso al campo”, ma anche in termini di ascolto e di autorevolezza percepita. Tutte, infatti, configurano un profilo che è maggioritario e dominante: egemonico. E questo non vale soltanto quando si “gioca in casa”, ovvero in Italia.
Quante delle esperienze di studio e di ricerca sul campo che chi scrive ha potuto fare in Cina, sarebbero state possibili – o perfino permesse – a persone cinesi della mia età che oggi vivono in Italia interessate a comprendere il fenomeno storico-sociale della propria migrazione? Non vi è dubbio che svolgere tale lavoro in quanto studioso occidentale, con un chiaro “fenotipo europeo” (pelle chiara, capelli biondi, occhi azzurri, ecc.), ovvero facente parte di una minoranza visibile oggetto di curiosità e fascinazione nella Cina delle riforme, abbia potuto avvalersi dei vantaggi offerti da uno status privilegiato. Non vincolato, per esempio, alle pastoie della narrazione ideologica della diaspora, dalle responsabilità o dai vincoli famigliari, dalla perdurante forza – talora castrante – del lignaggio. E nello studio dell’immigrazione cinese in Italia, quanto è più semplice l’accesso al campo, alle fonti, alle istituzioni, alla sfera politica e mediatica, in virtù del semplice essere maschio-bianco-italiano? Non è retorica: pensiamo a indagini che chiamano in causa mondi ancora pervasi di mascolinità egemonica come le autorità di polizia, il mondo politico italiano a livello locale e nazionale, quello imprenditoriale, economico e finanziario.
Per questo Elaine Hsieh Chou, in questa sua spietata satira dell’accademia sinologica statunitense, spesso volutamente caricaturale, parla di cultural revenge literature. La sua è la reazione insofferente e rabbiosa di chi non ne può più di vedere la propria immagine sociale, la propria lingua, la propria cultura e la propria storia in balia del monopolio discorsivo della maggioranza egemone. Per le persone di origine cinese che in Italia stanno faticosamente impadronendosi degli strumenti per imprimere direttamente una propria cifra narrativa e interpretativa del loro presente e del loro passato in seno alla sfera discorsiva italiana, tutto questo è perfettamente comprensibile e necessario. Per chi anima questo blog, questo romanzo può essere letto come una sorta di cautionary tale, un racconto ammonitore: chi, da “non cinese” dispone di esperienze o competenze specifiche da mettere al servizio della costruzione di un’identità sinoitaliana/italocinese/”cinese in Italia” in costante evoluzione, deve essere ben consapevole delle implicazioni che ha il suo lavoro, la sua stessa voce. Anche se quella che racconta, come tenta di fare chi scrive, è in realtà una storia condivisa, come lo sono sempre le storie di una migrazione che si fa minoranza etnica, componente strutturale di una società altra rispetto a quella di origine, è tuttavia indubbio che la posta in gioco sia diversa.
Malgrado il proprio legame intellettuale, emotivo, sentimentale con la Cina e con i cinesi che fanno parte della propria cerchia famigliare o amicale, chi non è cinese non ha, in fondo, veramente skin in the game, non mette a repentaglio allo stesso modo la propria “faccia”, la reputazione propria e della propria famiglia, della propria gente, della propria terra d’origine, dei propri avi. Non ne subisce al medesimo modo il monito di rispettarne l’integrità, né il ricatto emotivo che questo comporta, l’ipoteca sentimentale che grava su chi si trova iscritto in volto il retaggio e il destino di un’intera nazione, non solo agli occhi dell’altro “che gli sta di fronte”, ma anche di quello dei propri “vicini”, per usare la terminologia di Maalouf.
Quello che però può fare è mettere a disposizione di chi di questa minoranza etnica in formazione fa parte il proprio sapere, le proprie competenze, le proprie libertà e i propri privilegi per aiutare ad aprire una strada, garantire equità e trasparenza a tale processo, garantire la possibilità di una sua renitenza al reclutamento di tale processo alle finalità delle politiche e delle retoriche identitarie. Quel che può e deve fare, è impegnarsi per promuovere la formazione di un capitale umano, sociale e culturale sinoitaliano, sostenere e coinvolgere le energie che questa esperienza secolare di migrazione ha prodotto, per garantire loro concrete opportunità di accesso ai sistemi di produzione del sapere. Magari imparando a farsi da parte, ogni volta che ciò si renda necessario, affinché la nostra voce non copra la loro.
D. Brigadoi Cologna
Il "ricatto emotivo" è innegabile. Tuttavia le vite di tutti noi sono immerse in ricatti emotivi; in alcuni contesti siamo i privilegiati, in altri i sottomessi; noi non siamo i nostri ricatti emotivi, ma come reagiamo ad essi. A volte ho il dubbio che analisi come le tue forniscano eleganti motivazioni alla comunità sino-italiana per un'accidia devastante, Ad esempio, agli eventi e alle manifestazioni di questo collettivo https://www.facebook.com/events/1194036321067818?_rdr partecipano pochissimi sino-italiani e molti afrodiscendenti. Mi chiedo: forse che gli afro-discendenti non subiscono ricatti emotivi?
Bellissimi post, Daniele. E’ importante dire che se non si subisce il ricatto emotivo tutto e’ piu’ facile.
Non so se sono del tutto d’accordo sul raccontare una storia condivisa, anche se so bene a cosa ti riferisci, e lo vedo dalle tue interazioni nella chat Dialogo.
In generale pero’ non sempre si puo’ raccontare una storia condivisa, e poi condivisa con chi?
Ho spiegato che il ‘regime produttivo’ dei cinesi nella moda italiana era il risultato dell’industria della moda e dei suoi meccanismi e non dei migranti cinesi che vi si inserivano facendosene interpreti. Credo che tutti i migranti cinesi sarebbero stati d’accordo con me, quindi si poteva dire che fosse una storia condivisa.
Ma quando ho raccontato dello…