Come altre persone che animano questo blog, chi scrive ha costruito la propria idea di sé all’intersezione di tante identità, affinità e appartenenze diverse. Alcune sono ascritte, altre sono elettive, altre ancora mutano nel corso del tempo e dipendono da quel che si sceglie di fare nella vita, da quel che si vuole essere oppure, forse più spesso, da quello che non si riesce a essere compiutamente, ma che ci si cerca di diventare. Questo processo di costante ridefinizione del sé dura una vita intera e dipende da innumerevoli fattori, ma quello principale sono indubbiamente le relazioni che si tessono con le persone che ci sono accanto: quelle che ci hanno visto crescere, quelle con cui si diventa ciò che si è. Come scriveva Amin Maalouf quasi venticinque anni fa:
“quel che determina l’appartenenza di una persona a un dato gruppo è essenzialmente l’influenza altrui; l’influenza dei ‘vicini’ – genitori, compatrioti, correligionari – che cercano di farla propria, e l’influenza di ‘quelli di fronte’, che si danno daffare per escluderla. Ognuno di noi deve aprirsi un cammino fra le strade su cui viene spinto e quelle che gli sono vietate o che gli vengono disseminate d’insidie; non è subito se stesso, non si limita a ‘prendere coscienza’ della propria identità, la acquisisce passo passo” (Maalouf A., Les identitès meurtriéres, Paris, Grasset & Fasquelle, 1998; trad. it L’identità, Milano, Bompiani, 2005)
Eppure, è difficile sfuggire alla forza gravitazionale delle identità ascritte, o presunte tali. Ancora più difficile è sottrarsi al gioco della identity politics, che tende a fondare sull’appartenenza a questa o quella identità la rivendicazione di determinati diritti collettivi, la riparazione di torti storici subiti in quanto membri di una comunità definita, appunto, da tali identità, oppure ancora la costruzione di un’agenda politica volta a difendere o promuovere in particolare le istanze di chi di quella comunità fa parte, magari a detrimento di chi non ne fa parte. Perché è vero che interi sistemi di potere, spesso millenari, si fondano in modo implicito o esplicito su tali politiche identitarie: il patriarcato (identità di genere); l’egemonia politica, economica e culturale degli europei e dei loro discendenti nelle Americhe e in Oceania (identità etnico-culturale); il capitalismo (identità di classe), giusto per fare qualche facile esempio. Ed è altrettanto vero che per contrastare tali radicate impalcature di potere spesso le minoranze devono ricorrere a politiche identitarie come “forza di rottura”.
Prendiamo allora la specifica costellazione identitaria di chi scrive queste righe: cittadino italiano di origine mitteleuropea (sudtirolese-trentina-istriana), vissuto tutta la propria vita sul crinale delle differenze linguistico-culturali, perché cresciuto in una terra di frontiera, con avi emigranti ed esuli, ma anche in conseguenze di personali esperienze di emigrazione, di formazione e di lavoro in paesi stranieri, a diverse età. Formatosi accademicamente e professionalmente nelle scienze sociali e nello studio della Cina dal punto di vista linguistico-culturale e storico-sociale. Ripetuti periodi di studio e di ricerca in Cina dagli anni Novanta del secolo scorso agli anni Dieci del ventunesimo hanno offerto l’opportunità di viaggi e soggiorni in molte regioni di tale paese. Le esperienze e competenze acquisite attraverso un percorso formativo e professionale eclettico hanno costruito nel tempo una particolare predilezione per lo studio della storia e dell’attualità delle migrazioni cinesi verso l’Italia. Si potrebbero aggiungere altre variabili identitarie significative: maschio, cisgender, eterosessuale, cinquantenne, orientamento politico socialdemocratico e progressista, estrazione sociale piccoloborghese, classe media, elevato livello di istruzione, poliglotta… insomma, si fa presto a finire in quel territorio greve d’ambizione frammista a un perenne senso di inadeguatezza che è il proprio cv o il proprio profilo su LinkedIn.
Occupandosi di Cina e di cinesi in Italia capita però che tutto questo complesso intreccio di identità, affinità elettive ed attitudini più o meno sviluppate venga ridotto a una sola variabile cruciale: la “non cinesità”. È anche un’esperienza comune a chi viaggia o risiede in Cina da “non cinese”. Quante volte ci si sente apostrofare con frasi spicce del tipo: “non conosci abbastanza la cultura cinese per capire”, “non sai abbastanza la lingua cinese per capire”, “non puoi capire - non capirai mai - perché non sei cinese”? Sarebbe facile ridurre un’obiezione di questo genere a un banale pregiudizio, magari venato di xenofobia, se non fosse che palesa una questione cruciale e legittima, cioè l’asimmetria di potere e di responsabilità che ne è alla base.
Il problema, infatti non è tanto l’essere “non cinese”, ma l’essere un non cinese che si arroga il diritto di parlare liberamente e irresponsabilmente di Cina e di cinesi, in grado di descrivere, definire, catalogare, sentenziare circa una società, una cultura, una storia che non gli appartengono. A maggior ragione, poi, se lo fa per passione o per lavoro. Come racconta Elaine Hsieh Chou, l’autrice taiwanese-americana del graffiante romanzo di satira culturale Disorientation, in un suo recente intervento all’ottimo podcast Nüvoices, una persona cinese potrebbe facilmente obiettare circa questa passione intellettuale che “il tuo hobby è la mia vita”. A nessuno, infatti, piace sentirsi ridotto a “oggetto di studio”, a mero “fenomeno sociale”, a “curiosità intellettuale”, benché a onor del vero ormai ciascuna persona di fatto già lo sia, costantemente, nell’epoca dei social media, della big data analysis e del capitalismo della sorveglianza. In questo senso la testimonianza di chi vive appieno una data identità etnico-culturale e sociale spesso rivendica una priorità quasi ontologica rispetto a chi tale identità non la compartecipa, ma la studia di mestiere, anche a prescindere dalla competenza, dal rispetto e dalla cura riposta nell’esercizio di tale “mestiere”.
D. Brigadoi Cologna
Immagine: Chen Zhen / Crystal Landscape of Inner Body / crystal, iron, glass / 95 x 70 x 190 cm / 2000 / Private Collection, Paris, Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins, Photo Ela Bialkowska
Impossibile non condividere quanto scritto dal prof. Cologna
Sai, secondo me il fastidio ha due ragioni: 1.coda di paglia come dice Sergio Basso nel suo commento 2. tristezza perché ci sono poche nostre voci autorevoli. Da qui rabbiosa consapevolezza che le nostre famiglie ci hanno preferito imprenditori invece che intellettuali e frustrazione per non essere riusciti a cambiare le cose. Tu ci hai sempre raccontato con serietà e rispetto, non hai niente da rimproverarti. Anche perché, è vero che siamo in pochi, ma abbiamo veramente la possibilità di parlare da buone piattaforme e non possiamo incolpare gli altri se non abbiamo il coraggio di farlo (con rispetto parlando perché non è facile). Oppure, invitali in questo blog dove possiamo scrivere insieme. 😉
@Sergio Basso concordo e rilancio, c’è un bel libro di Franco LaCecla che parte proprio da questo presupposto del malinteso come opportunità di relazione (F. La Cecla, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Bari, Laterza, 1997). Ma è una materia complicata dalle assimetrie di potere… e credo sia molto probabile che società aperte, che legittimano il dissenso e il conflitto, abbiano forse più strumenti per gestire dialetticamente queste asimmetrie. Questo non rende necessariamente meno aspri i conflitti, né meno necessario il dissenso.
Forse più forte ancora de “il tuo hobby è la mia vita” (sintesi folgorante, grazie!) c'è una disabitudine a essere raccontati dall'altro, a essere messi - per così dire - di fronte a uno specchio. Troviamo che la maniera in cui l'altro ci racconta è sempre imperfetta, fallace, piena di pregiudizi. Questo è vero; ma non sempre ciò è dovuto a malafede. Più semplicemente, il racconto dell'altro su di noi è SEMPRE imperfetto; la miscomprensione è l'orizzonte normale delle relazioni umane. In Occidente i media ci hanno abituato da decenni al caleidoscopio del racconto degli altri su di noi - in soldoni, al girotondo di come gli altri ci vedono. Forse è un ottimo allenamento per chi viene da cultur…