Daniele Brigadoi Cologna 高龍亶
“Signori, apriamo il Gran Libro della Riconoscenza Nazionale e scriviamo a capolista il nome del signor dott. Wang Shin Chien [sic], delegato della grande e gloriosa Repubblica Cinese alla Conferenza della Pace”. Così scriveva un anonimo cronista (pseudonimo: “artieri”) del quotidiano romano Giornale della Sera il 2 agosto 1946, a tre giorni dall’inizio della Conferenza di Parigi che doveva decidere quale pace gli Alleati avrebbero imposto all’Italia. Il caso italiano era particolare: per gran parte del corso della guerra era stata una potenza dell’Asse, nonché il luogo di nascita del totalitarismo fascista europeo. Le sue responsabilità rispetto alla rottura dell’ordine internazionale wilsoniano erano chiarissime, fin dalla guerra proditoriamente mossa all’Abissinia (l’Etiopia) nel 1935, come pure rispetto al ruolo giocato nel corso del secondo conflitto mondiale dal 1940 al 1943. Dopo l’otto settembre di quell’anno, tuttavia, il governo italiano negoziò faticosamente la sua cobelligeranza al fianco degli Alleati, una svolta che ebbe tragiche conseguenze per molte formazioni militari rimaste alla mercè degli ex-alleati tedeschi come pure per la popolazione civile, ma che segnò anche l’aspirazione di un riscatto politico, incarnato dai numerosi militari italiani che, talora con gli interi loro reparti, si diedero alla lotta partigiana o che vennero inquadrati nello schieramento alleato. Nel territorio italiano soggetto all’occupazione nazifascista, la resistenza partigiana si alimentò tanto dell’apporto di reduci e militari in servizio, quanto di formazioni politiche che già prefiguravano la futura repubblica.
Nell’agosto del 1946, alla guida della neonata Repubblica Italiana c’era il secondo governo De Gasperi, che già prima della fine della monarchia aveva tentato di far valere il più possibile la cobelligeranza e la resistenza come testimonianze innegabili della volontà del nuovo stato italiano di accreditarsi come attore responsabile del nuovo ordine postbellico. L’obiettivo era di scongiurare una pace punitiva, che non si sarebbe limitata a sottrarre alla nazione tutti i possedimenti coloniali in Africa e in Asia, ma le avrebbe potuto togliere anche le terre “redente” acquisite alla fine della Grande Guerra. In questo senso, tra le potenze vittoriose nessuna era potenzialmente più sensibile alla situazione italiana, e maggiormente in grado di far pesare la propria voce, della Repubblica di Cina, che la diplomazia italiana individuò precocemente come la più “malleabile”. Durante la guerra, infatti, l’Italia aveva cercato di trattare i cinesi presenti sul suo territorio - qualificati come “sudditi nemici” dopo il 9 dicembre 1941, quando la Cina dichiarò guerra all’Italia e alle altre potenze dell’Asse – con una certa attenzione ed equanimità. Sebbene oltre il 60% degli oltre cinquecento cinesi residenti in Italia nel 1940 venne avviato all’internamento nei campi di concentramento fascisti, il regime cercò sempre di delineare con cautela le condizioni per il loro arresto e di non eccedere nella durezza della loro prigionia, perché temeva possibili ritorsioni da parte cinese sulle proprie missioni diplomatiche, commerciali e financo religiose in Cina. Inoltre, già nel maggio del 1946, il Ministero degli Affari Esteri italiano proponeva di “liquidare generosamente i danni sofferti dai cinesi in Italia”. E così fu: l’Italia non solo rinunciò ad ogni pretesa sulle proprie concessioni coloniali in Cina, ma fu anche l’unica potenza dell’Asse a pagare riparazioni di guerra alla Cina.
Così a Parigi, durante il secondo giorno della conferenza, l’eminente diplomatico dott. Wang Shih-chieh (Wáng Shìjié 王世杰, nome che la stampa italiana, come di consueto, storpiava in vario modo), si espresse a chiare lettere circa il giusto riconoscimento da accordare all’Italia per il ruolo giocato nella fase finale della guerra. Continua infatti l’anonimo cronista del Giornale della Sera: “Iscriviamo l’onorevole e dotto signor Wang Shin Chien [sic] al primo posto per le stesse molte ragioni che qualche giorno fa ci indussero a dimostrare come e perché la Repubblica Cinese avesse da considerarsi la prima delle potenze vittoriose. Noi scrivemmo (e l’on. De Gasperi si arrabbiò terribilmente) che non la Francia avremmo voluto vedere assisa tra i nostri giudici del Lussemburgo, ma, sì, la Cina. Poiché questa e non quella potevamo considerare nostra vincitrice, avendo la Francia perduta la guerra in «undici giorni», mentre la Cina la vinse, combattendola contro il Giappone, il più forte dei tre dell’Asse, per tredici anni”.
Ma gli auspici italiani furono vani. Al termine dei lavori della Conferenza di Pace di Parigi, nel 1947 l’Italia perse non solo il suo improvvido Impero coloniale, i suoi territori nell’Egeo e nel Mediterraneo, ma anche le terre tolte all’Austria-Ungheria all’indomani della Prima guerra mondiale, salvando a malapena Trieste e suggellando l’amaro destino delle popolazioni giuliano-dalmate di lingua italiana, costrette all’esodo nel corso del 1945-46.
Wang Shijie (1891-1981) fu Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Cina dal 1945 al 1948, poi Segretario Generale del Presidente Chiang Kai-shek (Jiǎng Jièshí 蔣介石) fino al 1953. Il 6 novembre 1970 l’Italia riconobbe la Repubblica popolare cinese come solo governo legittimo della nazione cinese, rompendo le relazioni diplomatiche con il governo della Repubblica di Cina in esilio sull’isola di Taiwan. Un anno più tardi, il 15 novembre 1971, la Repubblica di Cina perse il suo posto alle Nazioni Unite (e il suo seggio nel Consiglio di sicurezza) a favore della Repubblica popolare cinese. Italia e Cina continuano a essere legate da relazioni cordiali e improntate alla reciproca stima: un retaggio che merita di essere forse valorizzato maggiormente, anche riscoprendo tappe dimenticate, eppur fondamentali, della loro storia.
Mi ricordo che avevi accennato a questa storia dopo che avevamo parlato degli internati cinesi nei campi di concentramento italiani.
Sono delle vicende interessantissime e meritevoli di maggior conoscenza nel grande pubblico.
Bellissima ricostruzione, grazie! Occhio che Artieri è proprio il cognome del giornalista, "Giovanni Artieri", filo-monarchico inviato di guerra napoletano, tra i fondatori de "Il Tempo". Tutto il pezzo in cui è menzionato 王世杰 poi è umoristico, fa parte della rubrica "Saliera", che era come l'inserto "Cuore", ma negli anni Quaranta. Il senso mi sembra essere "A Parigi non ci fila di pezza nessuno, al punto che ai Cinesi ci dobbiamo aggrappare": quindi il giornalista non era affatto un illuso, e non credo che rimase poi spiazzato dall'esito della Conferenza di Pace di Parigi per l'Italia. Tanto per dare il tono del pezzo, Artieri poche righe più innanzi dà a De Gasperi dell'"uomo senza nervi".
Che storia interessante, non ne sapevo nulla!
Nel mio scarso cinese mi fa effetto che il nome del diplomatico cinese (世杰)suoni molto simile a "mondo" (世界)