Mio padre è sempre stato molto restio a parlare della sua famiglia d’origine e per questo motivo ne so meno rispetto al mio lato materno.
Anche per ovviare a questo mi organizzai per incontrare una parte di parenti sconosciuti in occasione di un mio viaggio negli USA nel 1984.
Conobbi così una mia cugina, che, come nella usanza di molte famiglie taiwanesi, aveva fatto l’università in America ed era poi rimasta a New York, a lavorare nel settore informatico.
Suo fratello invece era nella West Coast, un po’ più giovane di lei era ancora all’università.
Nell’organizzazione di questo viaggio scoprii così questa parte meno conosciuta della storia della mia famiglia.
Durante la guerra civile tra i nazionalisti e i comunisti la mia zia più grande aveva una relazione con un colonnello del Kuomintang e, alla sconfitta dell’esercito nazionalista, decise di seguirlo nella sua fuga a Taiwan, senza nemmeno poter più rivedere i propri genitori per più di trent’anni.
Queste erano le informazioni di cui disponevo, senza nessun commento, o altra informazione che descrivesse i sentimenti che accompagnavano questi fatti.
Nessuna parola sul trauma di dover lasciare il proprio paese, i propri familiari e ricostruire la propria vita in un altro posto.
Essendo io il primo della famiglia ad avere ottenuto la cittadinanza italiana, ebbi quindi l’opportunità di ricostruire alcuni pezzi mancanti della storia viaggiando a Taiwan nel 1988.
Ai miei occhi Taipei ricordava molto di più la Cina Popolare di quanto non facesse, per esempio, Hong Kong.
C’era un maggior traffico di automobili rispetto alla Cina, ma se coi miei cugini e coi loro amici parlavo in inglese, con mia zia e la sua generazione dovevo parlare in cinese.
Per coincidenza capitai proprio in occasione del matrimonio di mio cugino, che nel frattempo era tornato a vivere a Taiwan e aveva aperto una produzione di PC IBM compatibili.
Il matrimonio era nello stile tradizionale cinese, con un banchetto interminabile e tantissimi brindisi che ebbero l’effetto di stendere una buona parte degli invitati prima della fine della serata.
Non ebbi modo di vedere nuovamente i miei parenti di Taiwan, però negli anni successivi mio padre finalmente incontrò, dopo vari decenni, sua sorella.
Non in Cina e nemmeno a Taiwan, ma nel corso di un viaggio nei vicini paesi del Sud Est asiatico.
Io ebbi modo di capire che quella reticenza a parlare di quei fatti era forse pudore rispetto a fatti sicuramente dolorosi, ma condivisi dalla stragrande maggioranza dei taiwanesi di quella generazione.
Che avevano una forte e chiara identità cinese.
La generazione successiva, quella dei miei cugini, era sicuramente diversa, aveva sicuramente una influenza americana, ma comunque mantenevano una radice cinese molto forte.
Quella ancora successiva ha visto una forte integrazione economica tra i due lati dello stretto.
Ed è su quella che bisognerebbe puntare per superare, sul lungo termine, l’ambiguità sullo status di Taiwan.
Il mio auspicio è che, passata questa crisi che sta portando al rumore dei missili e degli aerei da guerra che sorvolano i cieli, ritorni invece il brusio.
Quello delle navi che portano le merci da un lato all’altro, del chiacchiericcio, sempre in cinese, tra persone che fanno affari e rafforzano una comune visione di prosperità per quelle tante aziende frutto di investimenti congiunti.
E delle riunioni familiari che adesso si possono tenere con maggior comodità, superando le divisioni della storia.
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