Nelle mie discussioni quasi quotidiane in una chat in cui si parla di Cina, che include di studiosi di Cina, sino discendenti e altri, si dibatte molto sul fatto che i cinesi in Italia e la loro cinesità non siano necessariamente rappresentati dalla Cina, dalla Repubblica Popolare di Cina o dal PCC.
Questo è un punto molto caldo, anche nei social più frequentati da persone di origini cinesi, dove le discussioni spesso diventano scontri.
Perché esiste tutta questa polarizzazione sull’argomento?
Le ragioni sono tante e vanno sia dal concetto di cittadinanza in Cina, che segue quello che in Italia definiremmo lo ius sanguinis, un diritto di sangue per cui si è cinesi se si è nati da cinesi, rafforzato dal fatto che la RPC non riconosce la doppia cittadinanza.
Un altro fattore molto importante è sicuramente dato dalla grande crescita economica che ha caratterizzato la Cina dalle riforme economiche di Deng Xiaoping e che ha reso il paese di mezzo un riferimento ideale per i cinesi della diaspora.
Il ritorno in Cina è apparentemente più realizzabile rispetto ai periodi in cui i cinesi sono emigrati in Italia e i segni tangibili del progresso economico, le infrastrutture delle moderne città cinesi, il tenore di vita, che in varie aree del paese è paragonabile a quello di tanti paesi europei, inorgogliscono i cinesi che vivono all’estero.
Che, sempre di più, hanno anche interessi economici in Cina o collegati con la Cina.
Se all’epoca del mio bisnonno, emigrato in Europa un centinaio di anni fa, il viaggio era di sola andata e il legame col paese d’origine era solo un ricordo che diventava più lontano col passare degli anni, l’attuale facilità dei viaggi ha reso via via più facile frequentare i luoghi delle proprie origini passate, ma anche di trovarci delle occasioni professionali, non solo andandoci a vivere, come è capitato a me per un certo periodo di tempo, ma anche facendo lavori che comportano uno stretto contatto con la Cina e il suo sistema economico.
Negli ultimi anni però ha preso sempre più forza in Occidente la visione di una Cina che è sempre più un competitor globale e questo si riflette anche sul linguaggio sulla stampa e anche sui cinesi che vivono all’estero.
Per cui è esperienza comune per tanti sino italiani di sentire critiche che non distinguono tra il paese e i suoi abitanti, nemmeno quelli che vivono all’estero.
E, quando si sente parlare di quelle parole chiave come diritti umani, Tibet, Xinjiang, Hong Kong eccetera, io personalmente ho la reazione dei gatti che percepiscono un pericolo, mi si accappona la pelle perché so che a questo seguirà, molto probabilmente, non una discussione su tali temi, ma un attacco strumentale alla Cina che si trasforma automaticamente in uno sui cinesi in Italia.
Una prova di questo l’abbiamo vissuta drammaticamente nel primo periodo del Covid in Cina, quando tutti i cinesi in Italia, non importa che viaggiassero o meno in Cina, erano individuati come potenziali untori.
Non dovrebbe essere così, perché nessun paese è perfetto, tantomeno la Cina, e una discussione pacata su tanti temi porterebbe un grande beneficio, ma è esperienza comune, di quelli che osservano con occhio attento la Cina, che questo non esiste nella maggior parte dei media.
E quindi diventa naturale, quando sui social di gruppi di cinesi in Italia si postano delle notizie che alcuni interpretano come negative sulla Cina, che qualcuno protesti dicendo che non si dovrebbero postare notizie di tal genere e che ci si accusi reciprocamente di essere persone a cui è stato effettuato il lavaggio del cervello, o dalla propaganda cinese o da quella occidentale e questo spazza via ogni tentativo di informare, dibattere e approfondire.
Purtroppo la risposta alla domanda del titolo è, spesso, negativa.
No, non esiste uno spazio per le sfumature, per le analisi fini, forse può esistere una fessura tra muri contrapposti ma è uno spazio molto piccolo.
E in questo ci si può liberare di quella autocensura di cui altri in questo blog hanno parlato.
Ma nel resto dei casi si esercita quella specie di responsabilità, diversa dalla autocensura, che ti porta a pesare ogni parola che dici per le conseguenze che queste possono avere sulla comunità più estesa.
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